L’industria tessile in Italia (termine entro cui comprendiamo moda, abbigliamento e pelli) rappresenta un settore estremamente importante della nostra economia, con un peso rilevante anche sui mercati globali.
A quasi due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 molte analisi confermano che il comparto del tessile è tra quelli ad avere sofferto maggiormente le misure restrittive, con una significativa e pesante contrazione della domanda. Qual è quindi il suo stato di salute oggi, quali cicatrici ha lasciato la pandemia, cosa ci ha insegnato e cosa si intravede all’orizzonte?
L’industria tessile in Italia e l’eredità del Covid-19
L’industria tessile nel nostro Paese, nonostante sia composta prevalentemente da piccole e medie imprese, è da sempre un settore molto vivace e dinamico che nel corso degli anni, più di altri comparti industriali, ha saputo innovarsi e adattarsi alle trasformazioni e alle crisi economiche.
La battuta di arresto in seguito alla crisi Covid-19 è stata però senza precedenti. Nel 2020 il calo di fatturato dell’industria tessile e della moda si attestata intorno al 30% rispetto all’anno precedente. Nel solo settore della moda da marzo 2020 a marzo 2021, come conseguenza delle misure di contenimento del virus e del calo dei consumi, si stima che siano andati persi 20,6 miliardi di euro; 2,2 miliardi è la perdita che si registra per il solo comparto della tessitura Made in Italy; anche l’export dell’industria tessile italiana – che rappresenta il 77,8% del totale delle esportazioni europee – è crollato, così come la domanda interna.
Il blocco della produzione di tessile, abbigliamento, pelle e accessori nel mese di aprile 2020 ha registrato un valore pari al -81% su base annua. La ripresa è iniziata verso agosto e settembre dello stesso anno, avvicinandosi ai livelli di fatturato pre-Covid, per poi peggiorare nuovamente con l’arrivo dell’autunno e il riacutizzarsi dei contagi.
Al netto di queste analisi, bisogna anche prendere atto della grande resilienza che il comparto tessile ha saputo dimostrare durante le settimane più dure della pandemia, convertendo con agilità la propria produzione per rispondere alla domanda di camici protettivi e mascherine chirurgiche. Il tutto con non poche difficoltà di carattere burocratico come l’iter di validazione delle capacità protettive dei tessuti impiegati, cercando anche di rispettare gli standard di sostenibilità ambientale. Qui un approfondimento che avevamo pubblicato sul nostro blog sul tema dei requisiti dei tessuti TNT.
Altri due importanti aspetti che hanno caratterizzato l’anno della pandemia sono stati la capacità di molti comparti industriali e produttivi di attivare reti di imprese per la semplificazione degli iter di autorizzazione e la presa di coscienza di dover “rallentare” la produzione e concentrarsi più sulla qualità che sulla quantità dei processi e dei prodotti in ottica “slow fashion”.
La resilienza, il fare rete e puntare sulla qualità, sono probabilmente i principali insegnamenti che la pandemia ha lasciato in eredità al settore tessile tout court.
Scenari futuri post pandemia
Ma oltre ai dati sulla situazione durante l’emergenza Covid-19, quali sono le prospettive future per l’industria tessile in Italia? A questa domanda prova a rispondere l’indagine condotta da Confindustria Moda per Smi (Sistema moda Italia) sul primo semestre del 2021 che cerca di tracciare le prospettive settoriali, così come risultano dal sentiment degli imprenditori che hanno preso parte allo studio.
L’11% degli intervistati a maggio di quest’anno era fiducioso che il recupero potesse avvenire entro il 2021, secondo il 48% il recupero della clientela pre Covid-19 avverrà per lo più nel 2022. Per il 21% del panel bisognerà, invece, attendere ulteriormente, puntando al 2023 per il recupero. Infine, non manca un 20% ben più pessimista che non crede che la clientela verrà mai pienamente riconquistata.
Metà del campione delle aziende del tessile e dell’abbigliamento segnala un certo «risveglio» del mercato estero con riferimento ad alcuni Paesi-partner strategici, che si stanno dimostrando più dinamici. Tra questi, si collocano ai primi posti (per il maggior numero di segnalazioni da parte delle aziende) Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Sempre in prospettiva futura, si è chiesto alle aziende quale impatto la pandemia abbia avuto nell’approccio green e quali saranno i driver di cambiamento in questo ambito. Per il 51% del campione, l’emergenza sanitaria non ha influito sull’orientamento «green» dell’azienda. Per un discreto 33%, invece, lo ha incentivato, mentre per il restante 16% lo ha rallentato. Gli ambiti che saranno maggiormente interessati da un miglioramento in chiave «green» sono: le materie prime usate, i processi produttivi, la gestione di scarti/rifiuti di produzione, i prodotti, infine la comunicazione.
A tracciare un quadro più completo ci aiuta anche una nota della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, secondo cui le leve sulle quali le imprese dovranno concentrare i propri sforzi possono essere ricondotte a tre filoni principali: la digitalizzazione dei processi produttivi e distributivi, gli investimenti volti a rendere la filiera più sostenibile riducendo il suo impatto ambientale e la valorizzazione del capitale umano, indispensabile per affrontare le sfide tecnologiche e la transizione ecologica.
Rimangono, tuttavia, dei punti di debolezza che il settore – soprattutto quello della moda – dovrà affrontare, rappresentati in primis dall’agguerrita concorrenza con paesi come la Cina.